| E' stato estremamente facile affezionarsi alla figura di Manfredi- ciabattino. E' straordinario il modo in cui Manfredi ci ha abituato a veder emergere i suoi personaggi dalla mediocrità, dall'ignoranza, dall'anonimato. Sempre svalutati, sempre giudicati troppo frettolosamente e superficialmente. Passati in rassegna ogni volta in una manciata di secondi e, puntualmente, catalogati come perdenti. Un esempio ne è la considerazione che Giuditta ha di Cornacchia: lo ritiene un codardo, un "nessuno". Perchè tace, perchè è ignorante, perchè non difende a viso aperto le sue idee. E invece, immancabile, arriva la rivincita umana del personaggio. Pasquino è lui. La voce del popolo è lui. Uno che sa scrivere e leggere, che capisce bene, che lotta, ma che, semplicemente, ha scelto un linguaggio diverso. Uno che, a differenza degli altri, ha capito che non le teste ma le lingue fanno la differenza e che a volte capire è un'arma a doppio taglio. La grandezza di Manfredi sta sempre lì, in quel suo modo di esser grande tacitamente e in maniera poco scontata, anzi, controcorrente. Ed è l'essere sottovalutato che lo spinge energicamente ad emergere. Il personaggio, non più stolto e di poco conto, si rivela, finalmente, essere il più arguto, il più completo, quello psicologicamente e umanamente più robusto. Eccezionale trovo il fatto che non si assiste ad un percorso di crescita del personaggio, ma ad un disvelamento, ad una presa di coscienza da parte dello spettatore. Siamo noi che cresciamo allo snodarsi della trama, come avviene, del resto, familiarizzando con Cornacchia.
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