Dal pistoiese, Adriana arriva a Roma armata di bellezza, ingenuità, tenera ignoranza, desideri trasparenti e capacità di slanci affettivi. Passa da un mestiere e da un uomo all’altro, finché il “male oscuro” dell’inutilità lievita in lei e la spinge al suicidio.
Scritto con Ruggero Maccari ed Ettore Scola, è il film-testamento, oltreché il capolavoro, di Antonio Pietrangeli, specialista in ritratti di donne umiliate: affresco feroce, a tratti impietoso, sull’avidità e l’egoismo interessato nel periodo post-
boom, notevole anche per la frantumata struttura narrativa, fuori dagli schemi della commedia italiana e influenzata dalla francese “scuola dello sguardo”. Tre Nastri d’argento (film, sceneggiatura e attore non protagonista: un memorabile Ugo Tognazzi) e molti premi all’estero. Semplicemente perfetta nel ruolo della sprovveduta, la ventenne Stefania Sandrelli si conferma animale cinematografico di razza.
Per chi scrive, la morte di Adriana, vittima non del tutto innocente sopraffatta dagli eventi, resta tra le più belle mai viste sullo schermo insieme a quella del Roy di “Blade Runner” e dell’Ale de “I pugni in tasca”. L’alba. Un piccolo giradischi suona un motivetto anni Sessanta. Assorta in un malinconico silenzio, la giovane si accosta alla finestra, si toglie la parrucca, il suo sguardo è come perso nel vuoto: è sufficiente un rapido stacco di macchina per tirare da soli le somme. Parafrasando Woody Allen, “è semplice ed è tutto”.
FW